Lettura Giapponese - fa riflettere...
Un libro che fa riflettere. Scritta così potrebbe sembrare un opinione banale per classificare un qualunque saggio di denuncia sociale, ma non fraintendetemi: Underground è un libro che fa riflettere a 360°, anzi va oltre la semplice riflessione contenutistica.
Il primo pensiero dell' autore, ovviamente va alle vittime del gas sarin, alle numerose persone colpite dall'attentato del '95 alla metropolitana di Tokyo, da cui il libro, e il primo impatto del lettore con Underground sono le testimonianze dirette di coloro che c'erano, che quel giorno erano presenti proprio lì su quei treni, in quei vagoni.
- Quante vittime, quanto hanno sofferto, quali le ripercussioni fisiche, psicologiche, sociali di un simile trauma tra i sopravvissuti, come reagire, come affrontare di nuovo il quotidiano senza sentire il peso di un implicito straniamento nei confronti di una società in cui tutta la vita si lotta per appartenervi degnamente e che poi d'improvviso, vuoi per la mano di un folle, vuoi per il cieco destino che ti colloca in quel posto in quella precisa ora, ti volta le spalle e ti tradisce mortificando tutti i tuoi sforzi, resettando la tua biografia nel migliore dei casi (se perdi il lavoro) a ventenne in cerca di un impiego e nel peggiore (i feriti gravi) a bambino, a neonato, ad essere non più auto sufficiente, non in grado di esprimersi e tuttavia con una coscienza adulta? - Queste le domande che Murakami si pone, talvolta che ci induce a porre, nella prima parte del suo lavoro. E sono domande legittime, giuste, normali, forse addirittura banali se non si temesse di mancare di rispetto alle vittime. E se Underground si limitasse a queste forse già basterebbe, già sarebbe un importante cronaca di quei tragici fatti, un documento storico che empaticamente risuonerebbe nell’io del lettore risvegliando i timori più profondi e sopiti, quelli del concreto, del reale: non tanto dell’effettivo pericolo, quanto della certa constatazione che nella vita non vi è nulla di permanente, di costante, e soprattutto che, per quanto ci si possa sforzare a certe cose è impossibile opporsi.
Forse sarebbe già sufficiente dunque, ma per fortuna nostra (usare termini con connotazioni positive trattando di questi temi pare sempre fuori luogo) l’autore non è pago e dopo l'ardente sofferenza dei racconti dei soprevvissuti, con una lucidità e un equilibrio stupendamente disumani (poiché sarebbe troppo comprensibile, normale, troppo umano appunto, ribellarsi e adirarsi bollando di luoghi comuni l’accaduto), va a sondare i motivi che hanno portato ad un simile attentato. E dove va a cercare questi motivi? Direttamente in “terra nemica” intervistando, se non gli attentatori stessi (cosa preclusagli probabilmente per motivi legali), gli affiliati, gli adepti allo stesso culto degli artefici della carneficina, coloro i quali insomma se non a giustificare, sono disposti almeno a comprendere i motivi che hanno portato i loro “compagni” ad agire in quel modo; e ancora, non solo l’autore ne riporta la testimonianza, li intervista, vi dialoga, vi discute tentando di opporre la logica all’illogicità, la ragione al cieco fondamentalismo del seguace e in fine dei conti l’umano al disumano, ma tenta anche di calarsi nei loro panni, di mettersi al loro stesso livello. Ed è qui che nascono finalmente le riflessioni più interessanti, ed è qui che l'autore ci porta, con perfetta logica, a porci le domande più importanti e talvolta abberranti.
Non aggiungerò altro poichè ognuno deve arrivare alle proprie conclusioni senza essere influenzato dal pensiero di altri. Attenzione però leggendo questa parte a non commettere l'errore di credere che Murakami voglia fare l’avvocato del diavolo: a lui non interessa giustificare i terroristi, il suo intento, è quello di andare più in profondità, di comprendere cosa c’è dietro al semplice brutale atto, e ancora di più, cosa c’è dietro all’esecutore materiale, quali possono essere i motivi che lo portano a compiere una tale aberrazione della natura, quale può essere stato, prima del momento fatidico, il suo ruolo nella società e cosa l'ha portato a diventare prima un interessato, poi un affiliato ed infine un adepto di un culto che con una mano benedice e promette libertà e con l’altra sottrae individualità e razionalità fino a creare una marionetta mostruosa.
Superata comunque questa seconda parte sull'onda delle riflessioni personali poi si giunge al finale, ed è questo un finale aperto, l’indagine dell’autore infatti non porta a nessuna conclusione certa ma solleva, come giusto che sia in questi incomprensibili casi, solo altri quesiti, solo altri dubbi che a ben cercare nascono tutti dal terreno fertile di un vecchio adagio ormai noto a molti: il colpevole, ladro - assassino - mandante - esecutore - terrorista che dir si voglia, è veramente colpevole o è il frutto di una società che non lascia scampo, di un sistema che riconosce prontamente gli errori delle sue parti senza tuttavia ammettere che siano errori propri?
Scadendo nell’esistenziale, questo dubbio può essere esteso ad ognuno di noi, ad ogni aspetto della nostra vita: siamo noi padroni del nostro destino o siamo semplicemente gli esecutori di un mandante sociale?
L’angolo delle riflessioni a 360°però non è ancora del tutto compiuto, Underground in sé contiene infatti un ulteriore quesito, neppure troppo implicito dal momento che l’autore stesso ci ragiona su più volte nella postfazione, ovvero: cosa porta uno scrittore di romanzi diciamo iper-reali, per non dire surreali, ad imbarcarsi in un' impresa completamente diversa, estranea, probabilmente addirittura oltrè le sue possibilità? Cosa porta un famoso autore di romanzi a scrivere un saggio su quello che in fin dei conti è il disagio della società moderna e su quelli che sono i membri più colpiti da questo disagio? E' come se lui, l’autore, alla fine si chiedesse “perché, io Murakami, scrittore affermato di tutt’altro genere, sento il bisogno di denunciare questi fatti, perché sento il bisogno di ragionarci su, di confrontarmi e forse anche confortarmi con gli altri? Che forse io stesso, dall’alto della mia consolidata e tranquilla posizione di essere umano normale, in misura magari minore, inferiore, assolutamente non paragonabile a quella dei membri del culto Aum, dei terroristi, che forse io stesso dunque, senta questo disagio, sia una vittima di questo stesso meccanismo la cui estremizzazione porta ai risultati a tutti ahimè noti?"
Magari è proprio così, magari senza rendercene conto, tutti, chi più chi meno, percepiamo di essere artefici e vittime di un qualcosa più grande di noi a cui non possiamo opporci, tutti temiamo che, compiuta una scelta sbagliata, questa ci trasporti in un ineluttabile piramide lesionista/autolesionistica le cui estreme conseguenze sono la perdita di individualità a favore della forza del gruppo, a favore dello spirito d’unione che nasce dal coro delle voci che recitano un mantra vuoi improntato alla pietà, all’umiltà e alla pace, vuoi improntato alla violenza, alla guerra e alla morte. E magari l'unica nostra chance è proprio quella di denuciare questa scoperta e confrontarci/confortarci con gli altri per meglio comprendere il da farsi, per tentare anche solo di intuire l'esistenza di una via per sfuggire a questa dinamica a questo meccanismo di aggregazione dalle facili promesse.
E la riflessione (stavolta veramente l'ultima!) dell’autore termina proprio così, con un pensiero che suona quasi come un monito e forse non è altro che un' inopinabile constatazione: i terroristi, gli adepti del culto Aum, originariamente non facevano parte di un substrato culturale ai margini della società, erano persone normali, architetti, ingegneri, medici, gente colta, intelligente, insospettabile insomma eppure qualcosa li ha attratti, in qualche modo sono rimasti invischiati nell’assurda macchina del culto fondamentalista, del cieco estremismo, dell’assurdo disumano, e se può capitare a loro, “gente comune”, può capitare a chiunque e un giorno o l’altro potrebbe capitare anche a voi…
Roba da toccarsi i “paesi bassi” e lasciavi la mano per una settimana buona, per scherzarci su.
Stilisticamente, (sarò finalmente breve poiché in questo genere di lavoro la lucentezza della penna ha poca importanza rispetto ai contenuti) Murakami si esprime come sempre in maniera chiara, e fluida; l' unico appunto riguarda il numero delle testimonianze delle vittime: mi rendo conto che era necessario dipingere un quadro d’insieme globale e fedele alla realtà, tuttavia forse alcune testimonianze, quelle dei “più fortunati” che non hanno riportato conseguenze, potevano essere tralasciate in favore di altre magari più toccanti o in favore, e provo un umanissimo fastidio a confessarlo, della più interessante seconda parte in cui l’autore dialoga e prova a ragionare con i membri della setta. Forse avrebbe potuto, forse sarebbe stato un libro meno corrispondente alla realtà ma più pregnante, più asciutto, di maggior impatto, ma come già precisato lo stile in questo genere di letteratura conta davvero poco e se si è disposti a concedersi qualche indelicato sbadiglio iniziale e a lasciare che la viva realtà degli accadimenti trascenda la monotonia del già detto, si scoprirà un testo ricco di spunti per meditare equilibratamente sulla natura, talvolta spaventosa, dell’essere umano.
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